Il concetto di sostenibilita’ non si limita all’ambito ambientale, essa si estende a tutte le attivita’ che hanno un impatto sul pianeta, tra esse senz’altro quella economica e sociale.

Proprio la carenza di quest’ultima in diverse aree del mondo costituisce un allarme pericolosamente inascoltato, tale da compromettere equilibri non solo nazionali ma anche internazionali talvolta su larga scala. Caso emblematico in tal senso, oggi tristemente protagonista delle pagine di cronaca, è la Siria, teatro di un’emergenza che dal 2012 non conosce tregua. Al fine di provare ad analizzare quanto sta accadendo (al riparo da teorie complottistiche, opinioni e tesi non suffragate da “prove”),abbiamo rivolto alcune domande ad un giornalista professionista che attualmente vive in medioriente.

Siria - L'insostenibilita' della guerra

Michele Giorgio, giornalista del Manifesto ed inviato in medioriente.

Nel 2012 iniziano le proteste contro il governo Assad. Che idea si è fatta di quel momento? Esisteva un reale malcontento da parte della popolazione civile (e se sì, perché) o invece ci sono state ingerenze esterne volte ad alimentare questa rivolta?

Le proteste sono iniziate nel 2011 anche sull’onda di quel che era accaduto nel resto del mondo arabo, in particolare in Tunisia ed in Egitto ove, ad inizio anno, c’erano state le due rivoluzioni popolari che avevano portato alla fuga del presidente tunisino ed alle dimissioni di quello egiziano. Grande fermento, quindi, nella regione, soprattutto nello Yemen e nel Bahrain. La Siria, come lo stesso Assad aveva sottolineato, era rimasta fuori da tutto questo. Cosa succede allora ad un certo punto? L’episodio scatenante si verifica nella città di Deraa dove, stando a quello che poi è stato raccontato, dei ragazzini che avevano scritto frasi contro Assad, erano stati severamente puniti e malmenati dagli agenti dei servizi di sicurezza. Ma aldilà di quell’episodio, c’erano delle condizioni di malcontento. Non parliamo soltanto di quello generale cui si può pensare per la mancanza di democrazia. Il malcontento era soprattutto di carattere economico. La Siria ha sempre dato grande importanza all’agricoltura, almeno nei decenni passati, ed i contadini erano stati una forza lavoro importante nell’economia siriana.

Ma una carestia molto violenta, unita anche al cambiamento delle condizioni del mercato internazionale dopo la globalizzazione, avevano portato ad un impoverimento piuttosto marcato della popolazione rurale siriana e questo sicuramente aveva generato anche del malcontento verso il regime che invece non aveva capito quanto fosse profondo il disagio di milioni di siriani. Non quelli delle grandi città come Aleppo, Damasco, Hama, Homs, ma quelli delle zone rurali. Oltretutto il governo siriano ed Assad erano impegnati in un programma di riforme economiche orientato verso il liberismo e volto progressivamente ad abbandonare quell’orientamento socialista che era stato soprattutto del padre di Assad, Hafez Assad. Motivi di malcontento quindi c’erano, eccome. A questi si aggiungevano i dissidenti siriani, ossia coloro che avevano creduto nello spirito riformista che Assad figlio aveva annunciato dopo la sua elezione a presidente, coloro che, qualche anno prima, erano stati i redattori del famoso manifesto di Damasco. Quella grande delusione per la mancanza di riforme democratiche aveva messo in campo queste forze, piuttosto minoritarie in verità, che scesero in campo per chiedere riforme anche in Siria sull’onda delle primavere arabe.

Quel che è accaduto dopo è abbastanza noto.

Quello che mi preme evidenziare è che di sicuro c’è stato molto spontaneismo all’inizio.

Il malcontento che era sfociato anche in rivolte duramente represse in quei primi mesi, ad un certo punto, all’inizio dell’estate 2011, comincia a prendere un’altra strada, quella di una resistenza armata. Tale resistenza piano piano si organizza e trova dei punti di riferimento, delle sponde diciamo così, nel mondo Arabo, in particolare, in quel caso, nel Qatar, grande sponsor dei Fratelli Musulmani, nemici storici del regime Baathista a Damasco. Sappiamo tutti della grande battaglia agli inizi degli anni ‘80 tra il regime e il movimento islamico. Ad Hama gli scontri culminarono in una repressione durissima con migliaia di morti tra i Fratelli Musulmani.

Il Qatar in quei mesi stava avendo un ruolo importante anche in Libia dove sosteneva apertamente l’insurrezione e la lotta armata contro Gheddafi ed evidentemente questo Paese piccolo ma particolarmente ricco e con una politica estera molto intensa, aveva pensato di poter replicare in Siria quel che stava facendo già in Libia. Quindi, per rispondere alla tua domanda, è vero che il regime adotta il pugno di ferro contro i manifestanti animati da varie ragioni di malcontento, ma è vero anche che all’inizio dell’estate 2011 – quindi molto presto per la verità – finisce la spontaneità di queste ribellioni e comincia una lotta armata foraggiata e sponsorizzata da alcuni attori arabi nemici di Bashar Assad.

Ad un certo punto del conflitto la Russia di Putin decide di intervenire in sostegno di Assad. Lei come interpreta questo intervento, un reale sostegno ad un governo legittimamente eletto o altre intenzioni mossero il Cremlino?

Putin interviene nel 2015 quando si rende conto che il suo alleato, Bashar Assad, è davvero in grande difficoltà. E si rende conto anche che la caduta di Assad e la fine del regime significheranno perdite molto importanti per gli interessi strategici ed economici della Russia. La Russia è stata un alleato stretto della Siria in epoca Sovietica, tant’è che a Tartus, sulla costa mediterranea, vi è una base militare Russa. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica assistiamo ad una fase in cui la Russia rimane in disparte. In Libia gioca un ruolo sicuramente marginale ed alla fine si ritrova esclusa da tutti i giochi, soprattutto per quel che riguarda la spartizione dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi.

Evidentemente, anche dopo questa esperienza, la Russia decide di intervenire in Siria per proteggere i suoi interessi, il suo alleato Assad e far sentire tutto il suo peso strategico. Naturalmente giustifica il suo intervento con la lotta al terrorismo che, a mio avviso, è una motivazione reale. Quelli che in Siria gli occidentali definiscono come “ribelli”, infatti, in Europa sarebbero identificati assolutamente come terroristi perchè stiamo parlando di organizzazioni come Al Nusra, che sarebbe il ramo di Al qaeda in Siria, stiamo parlando dell’ISIS, dello Stato Islamico che nasce appunto da una scissione di Al qaeda. Stiamo parlando di organizzazioni estremiste islamiche jihadiste sponsorizzate dal Qatar e, successivamente, dall’Arabia Saudita, che entra nel conflitto con un po’ di ritardo rispetto al Qatar per poi prendere il sopravvento. L’Arabia Saudita sponsorizza soprattutto il gruppo di Jaysh-al-Islam che è quello legato alla vicenda del presunto attacco chimico del 7 aprile a Duma, nella Ghouta orientale. La motivazione dichiarata dalla Russia quindi è assolutamente reale e concreta ma, l’ho detto da subito, c’è sicuramente anche la volontà di salvaguardare gli interessi nell’area mediorientale. Avere delle basi in Medioriente per la Russia è particolarmente importante e la Siria, chiaramente, garantisce tutto questo.

Si è spesso parlato di uso di gas sulla popolazione inerme da parte del regime di Assad e degli alleati Russi. Secondo la sua conoscenza dei fatti è reale questa notizia?

Non ho gli strumenti per affermare se ci sia stato o no un utilizzo di armi proibite, quindi di gas tossico da parte del regime siriano o da parte delle fazioni che si oppongono ad Assad. Posso dire solo che questa vicenda degli attacchi chimici, di cui si parla da tanto tempo e che, ripeto, non ho modo di smentire o di confermare, sicuramente è legata anche ad un discorso che ha a che fare con la propaganda, con l’utilizzo dei media. A tal proposito mi viene in mente che già qualche anno fa giornalisti come il premio Pulitzer Seymour Hersh, avevano smentito un altro attacco con il gas che era stato attribuito alle forze di Bashar Assad.

Quello recentissimo di qualche giorno fa è stato oggetto di indagine da parte di Robert Fisk, il prestigioso giornalista dell’Indipendence. Questi, basandosi non sulla base di prove scientifiche ma su testimonianze raccolte in loco, è giunto alla conclusione che a Duma l’attentato che ha poi innescato gli attacchi di USA, UK e Francia, in realtà non è mai avvenuto. Perciò quello che mi sento di dire in risposta alla tua domanda è che quando si parla di attacchi chimici bisogna considerare che, aldilà del fatto che possano essersi verificati davvero o no, le fazioni opposte ad Assad cercano ovviamente di utilizzare tutti i mezzi possibili per generare una reazione internazionale contro Assad che, non ce lo dimentichiamo, sul terreno la guerra l’ha quasi vinta e i suoi nemici non lo accettano. Il fatto che lui abbia vinto sul terreno gli darebbe, oltretutto, una notevole forza semmai si arrivasse al tavolo dei negoziati per una soluzione politica del conflitto in Siria (anche se fino ad oggi tentativi in tal senso sono stati tutti fallimentari). Quindi da un lato dobbiamo tenere conto di ogni eventualità ma dall’altra dobbiamo anche tener conto del fatto che tutte le forze in gioco utilizzano i mezzi di informazione per portare acqua al proprio mulino.

Nelle ultime ore assistiamo all’intervento armato di USA, UK e Francia contro Assad ed a favore delle forze cosiddette ribelli. Secondo lei come mai un intervento di queste forze occidentali e perché così tardivo?

Io non parlerei di intervento tardivo ma di intervento assolutamente illecito e illegittimo. In Siria c’è già un conflitto. Bisogna far terminare quello e non certo innescarne degli altri. Se questo attacco da parte di USA, Francia ed UK fosse stato una reale offensiva nei confronti della Siria, questo avrebbe sicuramente scatenato altri conflitti ed aggravato ancora di più quel che sta già avvenendo in Siria. Quello che penso, in realtà, è che l’intervento di questi Paesi sia stato dettato dalla necessità di “salvare la faccia”. Trump aveva già preannunciato un attacco quando in conferenza stampa, qualche ora dopo il presunto attacco chimico, ha definito Assad un animale. Quest’ultimo intervento armato USA è stato un po’ più forte e meno simbolico di quello di un anno fa contro Damasco ma sostanzialmente ancora del tutto inutile a modificare situazioni sul terreno. Un attacco giudicato e definito “insufficiente” da Israele ed Arabia Saudita, due Paesi legati da forti interessi strategici comuni sia contro la Siria sia contro l’Iran, che sperano in un coinvolgimento militare nel conflitto da parte di Trump, tale da trasformare radicalmente la situazione sul terreno ed abbattere il potere di Assad. Trump invece desidera uscire dal conflitto, almeno sul piano strettamente militare, non certo su quello degli interessi strategici ed economici ovviamente. Non sarei in grado di dire se gli americani e gli alleati torneranno a colpire in Siria, forse lo faranno o forse no. Quel che posso dire con certezza è che in questi anni chiunque sia intervenuto nel conflitto siriano lo ha fatto solo per tutelare i propri interessi, non certo per aiutare il popolo siriano.

In ultimo non posso non chiederle qual è, secondo lei, lo scenario in cui spera il popolo siriano alla fine di questa guerra.

Quando si parla di popolo siriano bisogna fare delle precisazioni poiché a mio parere non esiste un popolo siriano unito che abbia una visione unica di quello che dovrebbe accadere dopo la guerra. Tutti vogliono la fina della guerra, ovviamente. Una guerra devastante che ha distrutto tutto. Proprio Assad in una dichiarazione parla di 400 miliardi di dollari per rimettere a posto le cose in Siria.

E secondo me è una cifra sottostimata. Il problema è che in Siria esistono “varie Sirie” quando parliamo della popolazione. C’è un’ampia porzione di popolazione di fede musulmana sunnita che guarda con ostilità e diffidenza al regime di Assad. Questa di sicuro vorrebbe che ci fosse un cambiamento al potere, che non ci fossero più gli  Alawiti a guidare il Paese attraverso Bashar Assad. Invece le minoranze, quelle di origine sciita come gli Alawiti, i Drusi ed anche i Cristiani, sono schierati con Assad e temono molto che possano andare al potere i sunniti replicando in Siria quello che è accaduto già in altri contesti come la Libia, che dopo la caduta di Gheddafi è finito nell’anarchia più completa in mano alle milizie armate. Io sono stato diverse volte in Siria in tutti questi anni in cui ho vissuto in Medioriente, e tutti i siriani con cui ho parlato mi hanno sempre detto “non vogliamo fare la fine dell’Iraq, della Libia, dello Yemen!”. Auspicano, quindi, che dopo la fine della guerra possa esserci un processo che garantisca la sicurezza di tutte le componenti -e sono tante- etniche e religiose della popolazione siriana. Personalmente vedo questa cosa assai difficile perché le divisioni, i dolori, i drammi causati da questa guerra devastante, hanno segnato troppo la popolazione siriana in maniera indelebile e la riconciliazione non sarà per nulla facile in qualsiasi contesto politico.

Dott. Giorgio la ringraziamo per la sua preziosa disponibilita’

 

 

 

 

 

 

 


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